Architetture chieresi contemporanee: 1945-2023
Un censimento critico e fotografico di un patrimonio poco conosciuto.
DESCRIZIONE
Il Chierese è ricco di testimonianze architettoniche del passato, a lungo studiate e valorizzate. Tuttavia non si è ancora indagato a fondo su ciò che ci è stato lasciato in eredità in quel campo dal dopoguerra ad oggi. Da questa constatazione è nata l’idea di un censimento, pur senza pretese di immediata completezza, del nostro patrimonio architettonico più recente. Al piccolo gruppo dei promotori si sono aggregati altri professionisti del settore, storici locali, esperti, fotografi, insegnanti, amanti del nostro territorio in collaborazione con l’associazione CiòCheVale APS nell’ambito del progetto Pistaaa: La Blue Way Piemontese e della rivista Picchioverde.
L’ambiente in cui viviamo è frutto delle sedimentazioni di secoli. Costruzioni anonime si sono inserite tra palazzi di pregio, alcuni si sono conservati, di altri non è rimasto neppure il ricordo, decorazioni barocche hanno preso il posto di analoghi interventi gotici. Ciò che adesso è Chieri, come qualsiasi altro luogo o città, è il frutto di scelte del passato più o meno valide, più o meno avvedute, ma tutte portatrici di tracce imprescindibili di cui si deve tenere conto se si vuole vivere un luogo in modo consapevole.
La parte più qualificante della mappatura è relativa ai motivi profondi della scelta di inclusione: contesto, qualità, innovazione, sostenibilità, citazioni su riviste di settore. Cinque criteri di scelta su cui giudicare la bontà di tutto il lavoro. Per arrivare alle schede passando dal web si può sfruttare una semplice mappa del territorio, la nostra ‘vetrina’ su cui le posizioni degli edifici sono contrassegnate da evidenziatori. Passando il ‘mouse’ del pc su di essi, viene alla ribalta un ‘foglio’ contenente i dati fondamentali della singola opera; cliccando su un ulteriore link si apre la schedatura completa.
Per ogni architettura è possibile conoscere i riferimenti toponomastici, vedere materiale iconografico (fotografie, ma anche mappe e disegni), conoscere l’anno di costruzione, i progettisti, i criteri di scelta ed una breve descrizione dell’opera, attinta da pubblicazioni o dal sito dello studio di progettazione o da altre fonti citate.
Alcuni edifici sono illustrati da scatti d’autore in bianco e nero, capaci di esaltare tutte le atmosfere connesse con sapienti giochi di luci ed ombre, come è possibile ammirare in questa mostra. Il catalogo della mostra sarà consultabile sulla rivista di cultura e promozione del territorio Picchioverde. L’obiettivo dell’iniziativa è di ordire uno strumento in continuo divenire, utile agli studenti, agli appassionati, agli studiosi, o semplicemente a chi ama indistintamente le cose belle.
(Sintesi di un articolo di Mario Ghirardi pubblicato sulla rivista Picchioverde n. 13)
GRUPPO DI LAVORO
Clara Bertolini Cestari, Giancarlo Cazzin, Roberto Ferrero, Raffaele Fusco, Mario Ghirardi, Francesco Godio, Giorgio Parena, Silvana Parena, Paola Tagini, Vincenzo Tedesco, Gianfranco Verrua, Marco Vitali.
Coordinamento Associazione CioCheVale.
LA VISIONE DEI FOTOGRAFI
Per realizzare le immagini che desidero – autentiche, forti, essenziali quanto armoniche e ben proporzionate – lo sguardo deve farsi attento e meditato, rispettoso e aperto, solidamente strutturato e assertivo. Per parte loro sono le immagini stesse ad attrarmi, chiedendo di essere riconosciute e anche costruite. Progettualità e consapevolezza del risultato desiderato, perseveranza e pazienza, sensibilità visiva e intuizione per capire quando tutto è a posto diventano allora preziosi attrezzi del mestiere.
La composizione è infatti costruzione di rapporti tra forme e spazio, di proporzioni che dipendono dalla scelta del punto di vista; la luce e l’ombra poi – per Gabriele Basilico “gli strumenti per disegnare del fotografo” – sono la vera materia per realizzare l’immagine. Mi piace l’idea del fotografo come disegnatore e organizzatore. Così nascono le inquadrature spesso frontali, l’impalcatura delle linee portanti ortogonali e delle diagonali – sovente originate da ombre profonde. Pratico pertanto il classico “stile documentario” (Walker Evans) che, lontano dalla pura certificazione dell’oggettivo e rifuggendo sia l’invenzione che la convenzione, cerca invece con onestà e chiarezza di vedere quanto sta nelle cose. Lo fa per scoprire e rappresentare un ordine possibile nel caos apparente: si tratta in fondo di un bisogno che da sempre accompagna l’umanità.
La fotografia è in tal senso un documento, non tanto del mondo quanto dello sguardo stesso che ne scopre e chiarisce l’organizzazione.
Novant’anni fa John Berger rifletté su cosa c’era prima al posto della fotografia, prima dell’invenzione della macchina fotografica «La risposta più ovvia è: l’incisione, il disegno, la pittura. Ma la risposta più illuminante sarebbe: la memoria. In precedenza la funzione della fotografia era svolta dalla mente». Oggi il mezzo fotografico ci aiuta a ricordare persone e luoghi, diventando una sorta di passepartout del nostro passato. Per me una foto svolge prevalentemente la funzione di memoria visiva, non della ‘realtà’, ma della mia visione del mondo. Per quanto uno può adottare uno sguardo neutrale, mai lo sarà perché quell’immagine proverrà sempre da un preciso punto di vista scelto tra milioni disponibili.
Ho realizzato le stampe, visibili in mostra, con il preciso intento di documentare queste architetture, al fine di formare un archivio visivo consultabile sia nell’immediatezza che nel futuro.
Oggi si pone poca attenzione nella fase che precede lo scatto e una volta fatto poco ci si preoccupa alla conservazione. Personalmente cerco di seguire un lento processo che mi invita allo studio della luce che modella il soggetto, augurandomi che le meditate fotografie venute alla luce verranno trasmesse alle future generazioni. Per questo motivo ho utilizzato il banco ottico, una macchina fotografica di stampo ottocentesco, la quale mi obbliga a rallentare i ritmi, invitandomi a inquadrare in silenzio il soggetto al di sotto del telo oscurante, dove si crea uno spazio intimo e intriso di meraviglia.
Poi, l’attesa di guardare il lavoro svolto mi accompagna fino allo sviluppo del negativo in camera oscura. Questi lenti processi hanno trasformato il mio sguardo in immagine, che immortalata nel tempo diventa parte della memoria collettiva.